Sono molti anni ormai che avvertiamo una lenta decadenza del Natale.
Com’è possibile?
E’ una festa intramontabile e nessuno si sente di dire che è, per lo meno, sulla via di una inesorabile estinzione. Non abbiamo il coraggio e sarebbe blasfemo affermarlo apertamente.
C’è un diffuso timore reverenziale verso un rito, una consuetudine, una struttura che rappresenta la nostra storia, nella quale affondano le radici dell’essere e buona parte della civiltà occidentale, dell’esistenza individuale e dell’identità collettiva.
Eppure i segni della sua fine sono inequivocabili, al di là della gran cassa dei mass-media e delle convenzioni sociali.
Papa Francesco fa tutto il possibile per riafferrarne lo spirito di un tempo, proponendo la nascita del redentore come l’unico riferimento e la sola ancora di salvezza dell’umanità, ma tutto intorno a lui e a noi traballa.
Si sentono scricchiolii inequivocabili, tremori e rumori e si notano fenditure profonde nelle strutture portanti della Chiesa di Roma, nonostante le immagini rassicuranti di bambini sorridenti con in mano i lumini della viglia della natività, mentre si celebra messa nella basilica di S. Pietro.
Ma guardiamo il panorama davanti a noi: è contrassegnato da mille consumi disparati, e tanti derelitti senza speranza, dall’attesa del cenone e dal desiderio irrefrenabile di giovani e meno giovani di andarsene in giro per il mondo, quasi a voler dimenticare la nostra condizione, sempre più precaria spiritualmente e legata all’effimero, alle scelte superficiali.
La globalizzazione ha portato via con sé ogni distinzione tra le festività.
Il Natale vale la Pasqua, Hallowen il carnevale e le vacanze estive.
E’ tutto un pot-pourri senza forme definite, fondato sull’inconsistenza della nostra anima, la quale, avendo ineluttabilmente perso il senso del sacro, galleggia quotidianamente, festività comprese, in un mare di nulla.